Riconoscere (ed evitare) microaggressioni e gatekeeping


Nonostante ci stiamo per avvicinare al modernissimo 2024, i dati della letteratura scientifica ci mostrano ancora risultati poco confortanti. Occupandomi in buona parte di identità di genere, ho riscontrato anche personalmente che nei contesti sanitari è ancora diffusa una certa visione essenzialista di sesso e di genere, e che questi concetti sono ancora visti in modo binario e normativo (nonostante sappiamo che non esistono solo due generi e non esistono solo due sessi, così come non esiste solo un modo di appartenere ad un genere).

Questa prospettiva è riconducibile ad una visione delle identità trans* e non binarie come patologiche o sbagliate, o comunque meno desiderabili rispetto ad un’identità di genere cisgender. Previso che con “identità cisgender” si intendono quelle persone il cui genere assegnato alla nascita è lo stesso genere esperito e percepito dalla persona. Questi atteggiamenti patologizzanti comprendono microaggressioni, ovvero piccole (o a volte non tanto piccole) azioni discriminatorie verso le persone trans* e non binarie, azioni che possono indistintamente essere volontarie o involontarie. Quindi, per intenderci, non basta non voler discriminare per non mettere comunque in pratica dei comportamenti discriminatori. Queste discriminazioni sono diffuse e costanti e hanno delle concrete conseguenze negative sulla salute mentale delle persone trans* e non binarie. Un esempio di microaggressioni, forse quelle che vengono sperimentate maggiormente dalla popolazione trans*, sono l’uso dei pronomi sbagliati e l’uso del vecchio nome (deadname). Questo significa che usare i pronomi sbagliati ha delle conseguenze negative sulla salute mentale delle persone (per approfondimenti, vedasi il concetto di minority stress). Al contrario, usare i pronomi corretti è una pratica cosiddetta affermativa e questo ha delle conseguenze positive sul benessere delle persone. Altri atteggiamenti patologizzanti possono essere l’assumere che esistano solo due generi, maschile e femminile. Questo è quello che chiamiamo “binarismo di genere”. Oppure l’eteronormatività, ovvero dare per scontato che le persone siano eterosessuali. Anche questo comportamento sottende l’errata assunzione che essere eterosessuali sia in qualche misura più naturale (o semplicemente, meglio) rispetto agli altri orientamenti sessuali. Un’altra situazione patologizzante è quella che viene chiamata gatekeeping, traducibile in italiano come “guardiano del cancello”. Con questa parola si intende quella posizione di potere, in questo caso dello psicologo o della psicologa, che tra virgolette “dà il permesso” alle persone trans* di poter ad esempio accedere alla carriera alias, o accedere alla terapia ormonale o accedere all’iter legale per il cambio dei dati anagrafici sui documenti. Non spetta al professionista o alla professionista dire chi può passare o non passare dal “cancello”. Questo comportamento fa presumere che le persone debbano essere “abbastanza” trans* per poter accedere alla terapia ormonale o alla carriera alias. Riflettiamo un attimo su questo. Parlo per me, nella mia vita nessuna persona mi ha mai chiesto se fossi davvero sicura di essere una donna, nessuno mi ha mai detto che forse avrei dovuto aspettare ancora per indossare la mia prima gonna, nessuno mi ha mai chiesto perché mi trucco. Perché questo dovrebbe succedere ad una donna trans*? La mia identità di genere non è più desiderabile di un’altra, non è migliore di un’altra e non è più normale o naturale di un’altra. Nel 2018 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha ufficialmente depatologizzato le identità trans* e non binarie (per approfondimenti, consiglio il sito https://wpath.org). All’interno di questo sito si possono trovare gli standards of care nella loro ottava versione, indispensabili per psicologi e psicologhe ma anche per medici e mediche, familiari e amici e amiche di persone trans* e non binarie.


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